Shared by Max
Io, questo Gramellini, adesso me lo stampo e ne faccio un quadro. Punto.
Sono il trentaquattresimo minatore intrappolato da mesi in fondo al deserto cileno dell’Atacama. Di me nessuno sa nulla: mi sono nascosto bene. Oggi i miei trentatré compagni usciranno da qui. Poveretti. Sottovalutano quel che li aspetta. A me non fanno paura le televisioni giapponesi che hanno pagato a peso d’oro il diritto di perlustrare fino all’ultima ruga le nostre reazioni. E neppure i reporter che sventaglieranno i microfoni sotto il naso dei reduci, chiedendo loro «qual è il suo primo desiderio, adesso?». Che tu ti levi dalle scatole, zecca appiccicosa.
Non mi scandalizza neanche la bramosia dei parenti, che ci hanno già venduti in esclusiva a qualche talk show, nel quale andare a raccogliere gli applausi e i sospiri di un pubblico che si risveglia dal coma emotivo solo quando gli sbattono in faccia un caso estremo. No, io mi nascondo dal dopo. Quando tutte le interviste saranno esaurite e le curiosità esaudite. Quando l’ultima figlia avrà rotto l’iPod gentilmente offertole da Steve Jobs, l’ultimo cognato sarà tornato dalla partita gentilmente offertagli dal Real Madrid e l’ultima moglie si sarà stufata di accompagnarci nelle crociere gentilmente offerteci da mezzo mondo. Quando tutto ma proprio tutto verrà archiviato e sarà chiaro che a nessuno interessavamo come persone, ma solo come fenomeni da baraccone: «Ci dica, cosa si prova a stare là sotto?». Una sensazione sincera di pace, se vuoi proprio saperlo. Per questo io non mi muovo. E aspetto. Che gli altri trentatré, finito il giro di giostra, ritornino giù.