Pochi minuti fa è morto Alfredo Martini. Al netto delle figure mitologiche, IL CICLISMO in Italia. Uno che quando in un’intervista gli chiesero quale fosse il primo mondiale di ciclismo di cui avesse memoria rispose: “Il primo mondiale di ciclismo”. E poi tutta una storia di davanzali saltati per ascoltare l’arrivo di nascosto dalla radio del bar del paese.
Alfredo Martini ha prima inseguito come corridore, poi allenato e infine diretto come commissario tecnico della nazionale tutti i più grandi talenti del ciclismo italiano fino ad innamorarsi di Nibali quando ancora non si parlava di lui.  Partigiano, toscano, irascibile e affettuoso non c’era corsa in cui non venisse citato da un qualsiasi commentatore. Alla festa per il suo novantesimo compleanno, emozionò tutti gli invitati con un discorso sul ciclismo – e quindi sulla vita - che aveva come protagonista “un sorso d’acqua”.
In un’epoca dove l’immagine dello sportivo è inquinata dai protagonismi mediatici delle prime donne truccate del mondo del pallone, la sua schietta intelligenza e la sua serena umiltà mi hanno fatto appassionare al ciclismo.
Tanto era ancora l’affetto nei suoi confronti che il giovedì prima dell’ultimo Mondiale tutta la squadra italiana concluse l’uscita di allenamento nel suo cortile. Lui li fece entrare in casa e per un’ora parlarono sul suo divano della tattica, degli avversari e del momento adatto in cui attaccare. Poi, al momento dei saluti, Luca Paolini (capitano in corsa della squadra italiana) gli chiese: “Alfredo, cosa faccio, me la taglio la barba?”. “No. Non tagliare la barba, così gli fai più paura.”.